Ah, le etichette. Quello strano fenomeno che sembra essere il passatempo preferito di molti. O sei il re del mondo, il tipo che ha tutto sotto controllo, che riesce a fare 100 cose contemporaneamente senza mai sudare, o sei il fallito che non riesce nemmeno a trovare le chiavi di casa. Un po’ come se il mondo avesse bisogno di metterti in una scatola etichettata, con un bel cartello sopra che dice “successo” o “disastro”, e per qualche motivo pensiamo che questa definizione debba bastare a descrivere chi siamo.
E io dico, perché? Perché dovremmo ridurre la nostra complessità a un’unica etichetta? È come se una persona ti guardasse e dicesse: “Ah, quello è il tipo che porta sempre le scarpe sbagliate,” e, per un qualche motivo, ti fosse attribuita l’etichetta di “quello che non sa abbinare i vestiti” per tutta la vita. Sarebbe ridicolo, no? Eppure, succede, ogni giorno. Ci mettono un’etichetta e ci si aspetta che quella etichetta definisca tutta la nostra esistenza, come se non avessimo diritto a evolverci, a cambiare, a sfumare tra una cosa e l’altra.
La verità è che le etichette sono comode. Sono pratiche. In un mondo complesso e caotico, è più facile dire “questa persona è un vincente” o “quella è una fallita”, piuttosto che prendersi il tempo di capire chi sono veramente, senza ridurli a un concetto vuoto. Ed è incredibile come sia facile cadere in questo gioco. Si guarda una persona che non ha ancora raggiunto il suo obiettivo e la si etichetta subito come “perdente”. Ma poi, per qualcun altro, quella stessa persona potrebbe essere la protagonista di una risalita, l’eroe che sta solo attraversando una fase difficile.
Eppure, il concetto che mi fa impazzire è proprio questo: perché dovrei ridurmi a un’etichetta nella testa di qualcun altro? Perché la mia vita, le mie scelte, il mio percorso devono essere incasellati in una definizione che qualcun altro mi ha imposto? Non sarebbe più interessante essere “in evoluzione”, o meglio ancora, “un work in progress”? La realtà è che siamo tutti una combinazione di successi e fallimenti, di momenti al top e momenti di sconforto. La vita non è bianca o nera, non è fatta di etichettine di plastica, ma di esperienze che cambiano, si evolvono, si adattano. E se qualcuno cerca di incasellarmi in una categoria, beh, forse è meglio ridere e ricordargli che sono troppo complesso per essere ridotto a una scatola con un’etichetta sopra.
Dopotutto, chi ha mai detto che il successo è definito solo da un risultato finale? E chi stabilisce che il fallimento è una condanna permanente? Non è che una persona si sveglia un giorno e decide di fallire, è una serie di scelte, di errori, di esperimenti che ci portano dove siamo. E non c’è una sola strada giusta, né un solo modo di arrivarci. Allora perché ridurre tutto a “fallito” o “vincente”? Chi lo decide?
Mi piacerebbe vivere in un mondo dove non siamo obbligati a metterci delle etichette. Dove possiamo essere complessi, sfumati, senza bisogno di conformarci a una visione unidimensionale. Perché, in fondo, tutte quelle etichette non sono altro che riduzioni ingiuste della nostra autenticità. E nessuno dovrebbe essere costretto a indossarle.